Esercizi di scrittura creativa: storia di uno humanhero

Ho comprato da poco “I quaderni Fandango – Scrittura creativa – 20 grandi autori e 70 esercizi” e ho subito colto l’occasione per mettermi alla prova. Ho scelto come esercizio quello che richiede un breve testo in cui ti ispiri ad un dipinto o ad un’opera d’arte, pensando ai sensi che evoca e alla storia che c’è dietro al personaggio.

La scelta è ricaduta su un quadro dell’artista napoletano Luca Carnevale, che troneggia nel mio salotto su una parete accanto al balcone. Quindi signori e signore sedetevi comodamente perché sto per  raccontarvi la storia di un rapporto tra un eroe e il suo lato umano, del rapporto invertito tra l’essere umano e l’eroe, dove quest’ultimo è ridimensionato, e gli si ricorda che è arrivato dove è arrivato perché è partito dalla sua condizione di umano. E’ la storia di uno humanhero, un eroe che quando cala la maschera altri non è che un uomo con la sua lotta quotidiana.

Il mio humanhero è con me da qualche anno e la sua presenza si fa sempre sentire. E del resto come ignorarlo? Con i suoi colori vivi, la sua espressione di rabbia, immortalato in un’azione dirompente, non può non catturare l’attenzione di chi entra nella stanza. E’ un quadro, ma non evoca immobilità, al contrario, la sensazione che trasmette è quella di un uomo che, in un moto di rabbiosa sofferenza, si libera dei vestiti del supereroe per uscire allo scoperto nella sua umanità. Sembra quasi evocare la vittoria dell’umanità, con tutte le sue debolezze, sull’immortalità e l’indistruttibilità dell’eroe. Non è forse più eroico l’essere umano nella sua quotidianità?

L’ essere umano fa calare la maschera all’eroe che si presenta per quello che è. Il suo punto di partenza è il suo vissuto da umano che lo ha reso eroe, lo ha forgiato dandogli super poteri

Si è eroi perché la vita ci chiama ad esserlo. Lo status di eroe lo si conquista nella lotta quotidiana. La sudditanza dell’essere umano al supereroe si ribalta. L’essere umano riscatta la propria posizione nei confronti del supereroe ricordandogli che è tale grazie al suo sacrificio, alla suo dolore, al suo sangue.

Quando le parole si ammalano, tocca a noi averne cura

Ho iniziato da poco una nuova lettura, sono proprio alle primissime pagine, quindi ve ne parlerò approfonditamente quando l’avrò finita. Si tratta del libro “Parliamoci chiaro” di Daniele Trevisani che spiega il Modello delle quattro distanze attraverso il quale si può mettere in atto una comunicazione efficace e costruttiva.

All’interno della prima pagina ho trovato la citazione del Monaco buddhista vietnamita Thic Nhat Hanh: “le parole possono ammalarsi, dobbiamo disintossicarle e riportarle alla piena salute.”

Questa frase mi ha fatto riflettere in quanto chi fa il mestiere del copy o del blogger o qualsiasi altro mestiere che ha a che fare con le parole, ha sempre a cuore il tema della cura delle parole.

Quando si usano le parole per rappresentare un’azienda, un prodotto, un’idea, per raccontare una storia, la scelta dovrebbe essere sentita come una grande responsabilità. Tutti coloro che lavorano con le parole dovrebbero avere un approccio cauto, come se stessero maneggiando un oggetto fragile. Dovrebbero essere consapevoli che quel determinato aggettivo con cui hanno deciso di connotare un prodotto non è altro che una delle mille sfumature possibili. E che l’affermazione di quel determinato aggettivo, escludendone altri, è quasi un atto di presunzione.

Quando manca il rispetto delle parole, abusiamo di loro, nel significato più drammatico che ci possa essere, ovvero operiamo nei loro confronti una vera e proprio violenza che prima o poi le indurrà a morte certa. Una parola muore ogniqualvolta diventa priva di significato, quando non sortisce più alcun effetto in chi la ascolta ma anche in chi la pronuncia. Le parole sono ciò che ci avvicina agli altri, ciò che accorcia le distanze fisiche e culturali. Ecco perché bisogna saperle utilizzare con cura. E qualora si abbia il sospetto che un atto di violenza venga compiuto dobbiamo adoperarci a dare salute a quella parola e. se moribonda. a darle nuova vita.

Con tutte le parole abusate si potrebbe scrivere un dizionario intero, che risulterebbe pieno di parole e privo di significati, perché quelle parole sarebbero spente, quasi invisibili. L’aziendalese, il politichese, il settore marketing, ogni ambito della vita umana è caratterizzato da un dizionario delle parole abusate. Anche il tuo personale, quotidiano, quello che utilizzi per parlare con i tuoi famigliari, i tuoi colleghi, i tuoi amici, ne è pieno zeppo.

Ognuno di noi dovrebbe indagare sul proprio modo di utilizzare le parole e imparare a gestirle in maniera più opportuna, proprio come si fa con un oggetto di valore, con qualcosa che per noi è di vitale importanza. Le parole sono un nostro potentissimo strumento che ci consente di comunicare al mondo ciò che siamo e allo stesso tempo sono un mezzo di accoglienza che accorcia le distanze.

Diamoci dunque, tutti quanti, questo  grande obiettivo per il nuovo anno: “Impariamo a maneggiare le parole come se fossero diamanti nelle nostre mani.”

Buone feste a tutti

EQ Cafè -Connessione, il laboratorio dell’intelligenza emotiva

 

Mercoledì scorso ho partecipato al primo laboratorio, EQ Cafè-Connessione che si è tenuto a Napoli, EQ Cafè è un’attività di 6seconds, il network di esperti sull’intelligenza emotiva, che hanno il compito di diffonderla a livello globale.

Il laboratorio verteva su tre tematiche che reputo fondamentali e strettamente collegate tra di loro:

  • connessioni
  • intelligenza emotiva
  • gli obiettivi  globali per lo sviluppo sostenibile

La nostra docente Maria Iorio ha gestito il laboratorio dando voce ad ognuna delle nostre esperienze personali, consentendoci di connetterci l’un con l’altro e facendoci scoprire o riscoprire il potere delle connessioni.

Viviamo in una società in cui prevalgono le disconnessioni, siamo sempre più isolati nei nostri mondi, nei nostri piccoli microcosmi. In questo modo perdiamo tutti i benefici che derivano dalle connessioni, ovvero che ci fanno stare bene, in salute, che ci aiutano persino a raggiungere grande obiettivi  come quelli globali  per lo sviluppo sostenibile: povertà, istruzione, diseguaglianza, flora e fauna terrestre, flora e fauna acquatica, innovazione, parità di genere e via discorrendo.

In che modo quindi le connessioni e l’intelligenza emotiva possono aiutarci a raggiungere traguardi così impegnativi?  Ve lo svelo raccontandovi come si è articolato il laboratorio.

Ogni partecipante è stato chiamato ad esprimere le proprie emozioni rispetto al  raggiungimento di questi obiettivi per lo sviluppo sostenibile: in che modo si sentiva responsabile e quale poteva essere il suo contributo o, viceversa, quanto invece si sentiva impotente ed era consapevole di poter fare ben poco per risollevare la situazione.

Ad una seconda lettura del laboratorio a cui ho partecipato mi è venuto in mente Rotter e la sua distinzione delle persone in due tipologie di individui ideali, quelli con il locus of control interno e quelli con il locus of control esterno. Mi spiego meglio. Secondo Rotter il Locus of Control è il centro del comando, chi lo ha interno si sente responsabile ed è motivato e parte dal presupposto che le sue azioni possono portarlo a determinati risultati. Al contrario chi ha il locus of control esterno pensa che qualsiasi sua azione sia inutile in quanto il successo dipende da fattori esterni e non da lui. Ciò che mi ha sorpreso di più durante il laboratorio è riscontrare che la maggior parte dei partecipanti apparteneva alla categoria dei motivati.

Ed infatti quando siamo stati invitati a scegliere da uno a 4 obiettivi che più ci rappresentavano e poi a motivarne la scelta,  credo che il laboratorio abbia raggiunto il momento massimo di condivisione e connessione: ognuno di noi si è raccontato ed ho capito che dietro ad ogni obiettivo globale c’era un pezzo di vita impegnata a migliorare, nel proprio piccolo, quella determinata problematica.

Da che eravamo tanti tasselli sconosciuti ed isolati abbiamo iniziato a scoprire quanto temi così importanti che a volte si pensa siano al di fuori della portata del singolo, fossero in grado di connetterci. C’è chi condivideva l’hobby dell’orto attraverso il quale sosteneva uno stile di vita green, o chi era impegnato attivamente nel miglioramento dell’istruzione scolastica.

Ognuno di noi durante il laboratorio, con più o meno consapevolezza, ha connesso il proprio mondo, le proprie esperienze, con quello dell’altro. Credo sia questo il grande valore della connessione, la capacità di riconoscere il proprio impegno in quello dell’altro e di non sentirsi più soli nei propri sforzi. Ed è qui che entra in gioco l’intelligenza emotiva che è in grado di creare connessioni di valore con gli altri.

In che modo? Imparando a riconoscere le emozioni, le nostre e quelle altrui,  e a gestirle. Per retaggio culturale tendiamo a pensare che i problemi si risolvano razionalmente e fattivamente. Escludendo la componente emotiva ci priviamo della possibilità di accedere ad una serie di soluzioni che solo le emozioni possono indicarci. Se incominciamo ad allenarci con le emozioni, a riscoprire questa parte ancestrale di noi stessi, siamo sicuri di costruire una società basata su connessioni e non su persone chiuse nei loro piccoli mondi.  Connessioni grazie alle quali possiamo raggiungere grandi traguardi.

 

Cosa hanno in comune Maometto, un monaco e un blogger?

Cosa avranno mai in comune Maometto, un monaco dell’Arabia Fenice e un blogger? Le loro storie sono strettamente legate a questa bevanda gustosa, prodigiosa, miracolosa, ovvero sua maestà il caffè.

Maometto e la scoperta della Kawa

Secondo un’antica leggenda islamica Maometto cadde in un profondo stato di abbattimento e il l misericordioso Allah lo risollevò inviandogli una bevanda nera, amara e bollente, la Kawa.

L’effetto fu così strepitoso che Maometto dopo aver bevuto la bevanda miracolosa riuscì a soddisfare ben 40 donne senza interruzione.

Il monaco dell’Arabia Fenice

Risale al XVII secolo la scoperta da parte di un pastore dell’Arabia Fenice del caffè. Mentre guidava le sue capre a pascere, si accorse che dopo essere state in un boschetto le capre saltavano allegre e quando erano tornate alla capanna non riuscivano ad addormentarsi. Pensando che fossero state stregate bussò ad un convento e chiese di parlare con un superiore. Il superiore si fece quindi condurre al boschetto  dove trovò un arboscello con dei piccoli frutti di sapore acre e astringente. Egli fu dunque colpito dallo stesso effetto che aveva colpito le capre, ovvero, dopo aver mangiato i frutti di quell’alberello non riuscì ad addormentarsi. Per sincerarsi della cosa il superiore ripeté l’esperimento con i suoi confratelli e tutti rimasero vispi e allegri per tutta la notte dopo aver assaggiato la pianticella. Da quel momento gli arabi si occuparono della vendita del caffè per i monasteri fino a diffondere il commercio in tutta Europa.

(Le storie su Maometto e il Monaco sono tratte dal libro “Manuale del perfetto amatore del caffè”, a cura di Lejla Mancusi Sorrentino, Edizioni Intra Moenia.)

Blogger

Un giorno un blogger sedutosi alla scrivania, preso da un improvviso torpore, decise di prepararsi una tazzina di caffè.  Una volta posizionata la tazzina di caffè sulla sua scrivania si rese conto che la posizione le si confaceva particolarmente. E’ come se la forma e il colore l’avessero destinata proprio a quella posizione, accanto al pc. Il blogger si alzò di scatto, come illuminato da quella visione paradisiaca. Eccitato da un quadretto così perfetto si sedette alla scrivania e incominciò a dare sfogo a tutti suoi pensieri, partorendo post su post, fino a diventare famoso. Così come Maometto riuscì a soddisfare 40 donne senza sosta, il monaco diede il via al commercio arabo del caffè, il blogger grazie al caffè divenne famoso. Da allora non si è più vista una solo foto che rappresenti il mestiere del blogger senza la famosa tazzina di caffè.

Utilizzo di termini tecnici nella formazione: la storia del toast

 

La maggior parte dei partecipanti inizialmente ha riso, pensando che si trattasse di una battuta. Dopo un po’ però, poiché alla nostra ilarità non corrispondeva quella del docente, abbiamo capito che non stava scherzando affatto, ed è calato improvvisamente un silenzio imbarazzante su tutta l’aula. Credo che tutti, compresa la sottoscritta, in quel momento si siano sentiti abbastanza stupidi per aver frainteso ciò che diceva l’insegnante, tra l’altro con una tale naturalezza, da far sembrare chiunque non capisse un perfetto deficiente.

Fortunatamente, il suo accompagnatore in un moto di ascolto empatico, resosi conto dell’incomprensione da parte dei più, ci ha spiegato che questo benedetto toast altro non era che la notifica della ricezione di un messaggio e ci ha indicato dove la potevamo visualizzare. Ha anche aggiunto che si chiama così in quanto compare dall’alto verso il basso come quando salta il toast in un tostapane.

Ovviamente, trattandosi di platea giovane abbiamo iniziato a riderci su, facendo battute cretine sul toast, che avremmo preferito riceverlo su un piatto, che lo volevamo al prosciutto ecc… Battute sciocche, perché l’incomprensione a volte, fortunatamente, genera ilarità.

L’episodio del toast mi ha condotto ad alcune riflessioni:

  1. il tempo impiegato a chiarire un termine tecnico non compreso dai partecipanti è tempo sprecato
  2. quando il termine tecnico può essere sostituito con un termine di uso comune è doveroso utilizzare il secondo
  3.  i docenti che utilizzano termini tecnici hanno paura che il proprio ruolo venga minato.

Analizziamo i tre punti:

  1. Valuta il tempo di apprendimento

Non dare per scontato il tempo di apprendimento di un’aula. Puoi trovarti di fronte partecipanti che masticano un po’ della tua materia e allora sarà tutto più scorrevole, così come puoi trovarti di fronte persone che sono lontane mille miglia da quello che stai dicendo loro e hanno bisogno di più tempo per seguirti. I termini tecnici contribuiscono ad allungare quel tempo, soprattutto nel secondo caso. Ecco perché è buona norma utilizzarli solo se è proprio necessario.

2. Fai la scelta del termine giusto

Quando ti trovi davanti alla scelta tra un termine tecnico e uno di uso comune, il secondo è quasi sempre la scelta vincente. Ovviamente dipende dal contesto. Ma se ti trovi davanti ad una classe che non mastica la tua stessa lingua puoi incappare in silenzi imbarazzanti e dover ripetere un passaggio più di una volta. Se il termine tecnico, come nel caso del toast, è legato ad un aneddoto simpatico da raccontare, lo puoi menzionare, ma sempre dopo esserti accertato che i partecipanti abbiano capito davvero di cosa stai parlando.

3.  Non temere che il tuo ruolo venga minato

Il tuo ruolo verrà maggiormente riconosciuto quando sarai in grado di far capire a tutti la tua materia. Fare colpo con termini tecnici non ti aiuterà molto e rischi che la classe ad un certo punto non ti segua più.

Posso capire questo atteggiamento da chi è all’inizio. Ma la sicurezza acquisita nel tempo dovrebbe farti cambiare idea sul reale successo del tuo corso: esso va valutato in base alla tua capacita di rendere comprensibile ciò di cui stai parlando e non sull’abilità di darti un tono, utilizzando termini tecnici e poco chiari.

Cerca di rendere i tuoi corsi i più chiari possibili, non abusare di termini tecnici che in alcuni casi possono  rovinare la fluidità dell’apprendimento e compromettere il clima di condivisione instaurato con la tua classe. Valuta il successo del tuo corso in base al coinvolgimento che sei riuscito a creare e al risultato di apprendimento che sei riuscito ad ottenere.

 

Formazione: quanto conosci la tua platea?

Un corso va impostato e gestito tenendo conto di diversi fattori che reputo fondamentali:

  • il pubblico non è sempre lo stesso
  • il corso non è stato scelto dai corsisti
  • ci sono dei sabotatori
  • non tutte le tematiche trattate coinvolgeranno il pubblico

Il pubblico cambia in base al contesto che ti accingi ad approcciare, cambia in base alla nazionalità, all’impostazione aziendale, all’età media dei lavoratori e via discorrendo. Tenere in considerazione queste differenze ti aiuta ad impostarlo nel modo più efficace possibile.

Le aziende il più delle volte impongono corsi che non trovano grande consenso tra i dipendenti. Molte aziende ad esempio per vanagloriarsi di essere innovative sottopongono i propri dipendenti a corsi digital per i quali non sono assolutamente pronti. Altre invece, nonostante abbiano lavoratori più che pronti ad affrontare tematiche specifiche di un determinato settore che consentirebbero loro di fare un upgrade professionale, continuano a  proporre loro corsi non in linea con le esigenze reali.

Tenere conto di questi fattori ti aiuta a dare il giusto indirizzo al tuo corso, a capire quale delle tematiche su cui lo hai impostato deve essere spinta maggiormente e quale invece puoi anche mettere da parte, perché avrà un effetto controproducente sull’atmosfera che si è creata in classe.

Ciò che è fondamentale, subito dopo che ti sei presentato, è capire la tua classe, percepire l’umore generale e comportarti di conseguenza. Se sei alle prime armi non commettere l’errore di presumere di trovarti di fronte ad un’aula di professionisti che nella migliore delle circostanze sarà motivata, nella peggiore simulerà interesse. Non c’è niente di più sbagliato. Il fatto stesso di riunire un gruppo di adulti dai 30 in su, in un’aula, li farà regredire all’età scolastica. Poiché questa formazione è anche gratis, quindi non hanno dovuto sudare per averla, saranno anche polemici, con la puzza sotto il naso, con il classico atteggiamento di chi avrebbe potuto fare centomila cose migliori di quella che l’azienda e tu lo state costringendo a fare. Ti troverai di fronte ad una tipica classe liceale con il primo della classe, quello che deve fare sempre e comunque bella figura, il leccapiedi che ti lusingherà su ogni cosa che dirai, il bullo della classe che ti farà capire subito che lui è il più forte e che ti sta concedendo proprio un gran favore a stare insieme a te. Ci sarà quello timido, il taciturno e il disinteressato. Se ti vengono altri esempi di tipologie di alunni dai 10 anni ai 18, metticeli perché di sicuro li incontrerai.

Le prime volte sarai abbastanza sconvolto e ringrazierai il tuo dio di essere arrivato a fine corso e ti riprometterai di non accettare più incarichi da quell’azienda. Per fortuna poi le cose cambiano.

Tu cambi e di conseguenza il tuo approccio. D’improvviso entrare in un’aula non ti fa più paura, non sei più intimorito dalla platea e soprattutto hai imparato la lezione: prima di partire con il corso devi conoscere le persone che ti stanno di fronte, sondare la loro volontà di apprendere e partecipare, cercare di capire chi ti  può sabotare e chi no.

Un paio di anni fa ho partecipato ad un corso e devo riconoscere che la formatrice era una davvero tosta, di quelle con gli attributi. All’interno dell’aula c’era il classico bullo che non vedeva l’ora di mettersi in mostra e creare disturbo. La signora, di un’eleganza innata, ha iniziato a giocare una metaforica partita di tennis con questo bullo, per cui ad ogni frase polemica, ad ogni opinione espressa per creare disagio, rispondeva senza scomporsi e metteva a segno un punto. Il bullo, oggettivamente in difficoltà, non si rendeva conto di essere perdente sin dall’inizio, e lei per disorientarlo ancora di più, di tanto in tanto gli concedeva delle simil-vittorie, annuendo a ciò che diceva. Il tempo però che questi abbassava la guardia, la formatrice metteva a segno un altro punto.

Alla fine erano diventati grandi amici, in quanto il bullo aveva iniziato a capire che qualsiasi cosa avesse detto o fatto non ne sarebbe uscito vincente. Morale della favola: la formatrice aveva colto la sfida, non aveva ignorato il bullo, sapendo di poter gestire la situazione e, dopo aver messo a segno un paio di colpi, ne era uscita a testa alta riuscendo a coinvolgere quello che in quel momento era il sabotatore del suo corso.

Ciò che ha sempre suscitato la mia ammirazione è l’abilità del formatore di saper reimpostare il corso durante la lezione stessa, spingendo sulle tematiche che creano maggiore interesse, senza battute di arresto  e senza che la classe se  ne renda conto. Se non ti sei dato da fare ancora in questo senso, ti consiglio di farlo subito.

Di solito succede questo: durante un corso, dopo un momento in cui la tensione è alta, dove tutti i partecipanti hanno raggiunto il massimo del coinvolgimento il docente dice: “A questo punto avrei voluto farvi vedere determinate slide, ma preferisco andare oltre e passare direttamente a…”. Questo è il classico esempio di chi è molto attento alla recezione della sua classe, si rende conto di aver raggiunto il massimo dell’attenzione e del coinvolgimento e per non perderle continua sulla strada che ha scaldato gli animi.

A questo punto potrai rispondermi: “Già è tanto che sono riuscito a coinvolgere i partecipanti, figuriamoci se riesco pure a reimpostare il corso…”

E su questo non ti posso dare che ragione. Il coinvolgimento è una gran bella sfida ed ho già pronto un suggerimento per te.

Ciò che scalda maggiormente gli animi dei partecipanti è la capacità di rapportare le materie proposte dal corso alla realtà lavorativa. Ecco perché un bravo formatore studia sempre il settore presso il quale farà formazione. Fare esempi calzanti serve ai corsisti a prendere subito confidenza con la materia del corso, accresce il coinvolgimento e la partecipazione. Invoglia il tuo pubblico a dire la propria opinione sull’utilità di applicazione di quella tematica nel proprio lavoro.  Le varie considerazioni possono essere fondamentali per migliorare l’impostazione del tuo corso.

In definitiva ciò che ti viene chiesto in assoluto durante un corso, è l’ascolto attivo. Perché? Perché ti rende sensibilissimo alla tua classe aiutandoti a gestirla nel modo migliore. Non sempre si è dotati di un carattere carismatico in grado di trascinare le folle, e di creare consenso immediato. Però si può essere degli attenti ascoltatori e questo può aiutarti nel creare il tuo approccio personalizzato.

La formazione come tutti gli altri mestieri è una attitudine che si può sviluppare ed implementare nel corso del tempo. Io, ad esempio, sono figlia di una professoressa di matematica, per cui ho sviluppato dall’adolescenza in poi un rifiuto nei confronti dell’insegnamento. Non avrei mai detto che un giorno mi sarei trovata nella condizione di dover formare colleghi sull’utilizzo di alcuni software e app.  Sono rimasta a dir poco sconvolta quando uno di loro mi ha detto “Avresti dovuto fare l’insegnante, sei proprio brava.”

Formare, educare, diventano una vocazione quando tu credi in quello che stai insegnando e per trasmetterlo a chi ti sta di fronte cerchi le strade migliori affinché la tua materia venga compresa senza troppi sforzi e nei casi migliori venga amata come la ami tu.

 

 

 

 

Come gestire al meglio la formazione aziendale

Di recente ho frequentato dei corsi di formazione e di tanto in tanto mi capita di formare alcuni colleghi su app o software. Entrambe le esperienze come formatore e come alunna mi hanno spinta ad alcune riflessioni su come potrebbe essere gestita al meglio una classe durante la formazione aziendale.

Innanzitutto va fatta una premessa: la classe che ti accingi a formare è lo specchio dell’azienda stessa. Ne rappresenta lo stato di salute. Durante un corso è possibile che emergano quindi conflitti, sentimenti di rancore, polemiche o, in caso positivo, alto coinvolgimento da parte dei partecipanti, interessamento alla materia.

L’attenzione alla platea di partecipanti quindi è per te fondamentale. La classe può inoltre celare delle sorprese, come ad esempio qualcuno che ha una formazione personale sulla materia del tuo corso. Queste persone non vanno viste come minacce ma vanno coinvolte subito per aumentare il coinvolgimento dell’intera classe.

Durante la formazione aziendale è difficile  che tutti partecipanti siano attivi e motivati.

Tra i partecipanti ci sarà chi pensa che il tuo corso non serva a molto e lo dimostra in maniera  palese. C’è chi invece è interessato e lo troverai estremamente coinvolto. Ancora più difficile se all’interno del tuo corso ti troverai persone appartenenti a ruoli gerarchicamente diversi, capo e sottoposto, ad esempio. Percepirai una tensione che difficilmente riuscirai a spezzare.

Cosa fare per affrontare una platea così eterogenea? Di seguito alcuni tips che credo siano utili:

1. Resta concentrato sul corso

La gestione degli off topic è nelle tue mani e non in quelle della classe. Puoi consentirli nella misura in cui sono in qualche modo pertinenti con l’argomento e se sono di durata breve.

2. Accetta il dissenso e sfruttalo a tuo vantaggio

Il consenso adula, ma è sul dissenso che devi lavorare maggiormente. Innanzitutto perché saranno più i casi in cui ti troverai di fronte ad una classe disinteressata rispetto a quelli in cui avrai partecipanti attivi. Ricorda però, che coinvolgere una persona inizialmente restia, ti costerà più fatica, ma poi produrrà un clima energico in tutta la classe.

3. Ammetti la tua ignoranza e chiedi conferma

Se ti trovi a fare formazione in un settore che conosci poco, prima di azzardarti a fare esempi pertinenti, chiedi se sono giusti. In questo modo aumenterai il grado di coinvolgimento della tua classe.

4. Alimenta il dibattito, frena la discussione

La condivisione di opinioni, esperienze in merito all’argomento da te trattato può essere un buon segnale. Vuol dire la platea è interessata all’argomento. Fai attenzione però a non far degenerare un tranquillo confronto in una rovente discussione.

5. Non usare termini tecnici

I termini tecnici quando sono ristretti ad una nicchia possono risultare di difficile comprensione e porre distanze tra te e i partecipanti, creando un clima freddo e distaccato. Usali proprio quando non ne puoi fare a meno.

6. Accogli i suggerimenti

Le persone durante l’apprendimento di una nuova materia, se motivate, fanno domande che possono aiutarti a migliorare il corso. Non sottovalutarle. Anzi prendile come utili suggerimenti.

7. Mostrati appassionato

Quando fai formazione c’è un elemento che fa una grande differenza: la passione. Quando trasmetti passione puoi essere sicuro di aver trasferito la cosa più importante. Gli approfondimenti possono essere anche eseguiti per conto proprio. La condivisione della passione non ha prezzo.

8. Sii accogliente e mai superiore

Ciò che mette un freno alla riuscita di un corso è proprio il tuo atteggiamento. Se ti mostri superiore, se pensi che la tua classe debba seguirti senza indugi certo di fornirle tutte le informazioni di cui hai bisogno, sei sulla strada sbagliata. È importante mostrarsi aperto alle domande anche a quelle più stupide, utilizzare un linguaggio semplice. In questo modo i partecipanti non si sentiranno a disagio e non percepiranno distanze.

9. Fai esempi concreti

Per rompere il ghiaccio e per rendere la materia del tuo corso meno ostica, riportala, se ti è possibile, alla realtà aziendale che stai formando. Fare esempi pratici di utilizzo di ciò che stai insegnando aiuterà la classe a capire subito in che modo quello che sta apprendendo potrà esserle utile durante le ore di lavoro.

Conclusioni

Formare realtà aziendali non è un gioco da ragazzi, ma si possono ottenere grandi risultati con un approccio che tiene conto dei partecipanti e delle loro esigenze.

 

 

 

 

Automotivazione e Intrapredenza, le soft skills di cui non si può fare a meno

Leggendo qua e là sulle competenze trasversali, ho imparato qualcosa che mi ha fatto davvero “emozionare” e che condivido a pieno: automotivazione e intraprendenza fanno pare delle soft skills. Come mai sono tanto emozionata? Perché le ho entrambe! Faccio fatica ad essere empatica, non avrò tutta questa leadership e capacità di impormi, ma quando mi devo reinventare non c’è nessuno che mi possa fermare. In realtà funziona più o meno così, personalmente: quando qualcuno mi dà un due di picche, mi blocca un progetto, mi dà il benservito, scatta qualcosa in me, una sorta di furia, che mi fa leggere, studiare, approfondire; la mente va a mille, l’adrenalina sale e io mi butto a capofitto in un altro progetto. Non mi abbatto. Non mi piango addosso, ma cerco l’alternativa. Io sono tra quelli che amano il piano b, la soluzione a cui non avresti mai pensato, ma che ti scatta nel cervello nel momento in cui il piano A fallisce.

Dunque riprendendo il discorso sulle soft skills, automotivazione e intraprendenza sono tra le competenze trasversali su cui puoi contare se vuoi adeguarti al nuovo mercato del lavoro che è “dinamico” e in continuo cambiamento. Anche il posto fisso è diventato mobile, ha cambiato natura. Ogni tipo di lavoro sta subendo una grande trasformazione digitale per cui concepire il posto fisso alla vecchia maniera è oramai obsoleto e controproducente.

Prima di parlare di automotivazione e intraprendenza voglio fare un piccolo appunto ai testi che parlano delle soft skills: sembra che esse siano di pertinenza solo di un certo livello impiegatizio, ovvero quello manageriale che prevede la gestione di sottoposti e potere decisionale. Nell’evoluzione lavorativa che molti “subiscono”, esse sono indispensabili anche a livelli più bassi di quelli manageriali le soft skills se si vuole sopravvivere a dinamiche lavorative nuove e sfidanti.

Dall’operaio all’impiegato di 4 livello l’evoluzione digitale ha imposto un mettersi in gioco quotidiano, un saper utilizzare strumenti nuovi, che possono in qualche modo richiedere un’attenzione, uno studio, un impegno diverso da quello preteso fino ad ora. Ecco che avere la capacità di automotivarsi mista ad una sana intraprendenza consente ai lavoratori di non subire il mondo del lavoro ma in qualche modo di farne parte in maniera attiva.

Nel caso dell’auto motivazione ho trovato interessante la definizione di locus of control, ovvero il centro di controllo, quello che secondo la divisione ideale di Rotter dei lavoratori, può essere interno o esterno. Il lavoratore che ha il locus of control interno riesce ad automotivarsi sul lavoro ed è fortemente convinto che attraverso l’impegno e gli sforzi può arrivare a determinati obiettivi. Lui è la causa dei suoi successi lavorativi o dei suoi insuccessi. Nel caso del Locus of Control esterno, il lavoratore non si impegna più di tanto perché parte dalla convinzione che sono i fattori esterni a determinare il raggiungimento o meno di obiettivi.

Entrambi sono delle visioni estremizzate, ma ovviamente chi è dotato di automotivazione si avvicina molto all’ideale di lavoratore con un locus of control interno. L’avvertimento che si può dare a queste persone è di gestire meglio l’insuccesso, non viverlo come un fallimento ma come una lezione da cui imparare e fare meglio.

L’altra soft skill che trovo fantastica e va a braccetto con l’automotivazione è l’intraprendenza. Questa però non l’ho letta, l’ho sentita in un video di Marco Montemagno: il sapersi mettere in gioco, anche all’interno della stessa azienda. Puoi infatti essere un lavoratore con una passione che può migliorare un processo della tua azienda, l’intraprendenza può darti la grinta che ti serve per proporti.

Spero che i giovani abbandonino la mentalità old style che vede il mondo del lavoro come qualcosa di statico, un traguardo da raggiungere e capiscano quanto sia fondamentale per adeguarsi al nuovo scenario lavorativo essere motivati e intraprendenti.