Storie di donne e lavoro: faccio due lavori e ho paura di fallire. Come superare il disagio

La storia di Marta e della sua passione per la fotografia

Marta ha 45 anni, ha un lavoro ben remunerato, è sposata ed ha un figlio. Marta ha una passione, la sua passione è la fotografia. Qualche anno addietro, quando ancora era precaria, ha investito molto in questa passione ed è riuscita ad ottenere anche collaborazioni importanti con agenzie della sua zona e alcuni magazine online.

Ora quella sua passione viene fuori solo durante le ricorrenze e i suoi viaggi. Ma ogni volta che deve riporre nel cassetto quella macchina fotografica è come se riponesse anche una parte di sé importante.

È come se sentisse una parte della sua anima, quella legata alle soddisfazioni, al proprio ego, punita e relegata in un angolino.

Un giorno incontra per caso una sua vecchia conoscenza che le chiede quali progressi avesse fatto come fotografa, visto che era così brava. A malincuore Marta risponde che quel periodo oramai è morto. Non c’è più la Marta fotografa, c’è la Marta lavoratrice, mamma, moglie. Ma tutto quel mondo lì adrenalinico non c’è più.

Li ricorda così quegli anni in cui voleva fare la fotografa professionista: elettrizzanti, adrenalinici, pieni di alti e bassi, di duro lavoro, alla ricerca della foto perfetta, del momento perfetto. Ma soprattutto pieni di creatività e di soddisfazioni.

Per un po’ di giorni le parole di quella persona: “Dovresti riprendere a fare foto, sei così brava”, le ronzano in testa. Non le riesce a dimenticare. Non riesce a non pensare a come sarebbe stata la sua vita se avesse insistito in quella direzione e se non si fosse fatta prendere dal miraggio del posto fisso.

Poi pensa alla sua casa, a suo figlio e non può non essere che orgogliosa di quello che ha fatto. Dopotutto in Italia per vivere decentemente devi avere il posto fisso. A dispetto di tutto quello che si sente dire in giro.

Non può ignorare tutti quelli che continuano a ripeterle di quanto sia fortunata ad avere un posto di lavoro fisso, di tutte le agevolazioni di cui può usufruire che un freelance, un libero professionista o un ‘imprenditore in cattive acque, se le può solo sognare.

Ma come fare i conti con la propria natura? Come poter mettere a tacere qualcosa che decide di esserci

a prescindere da ciò che dicono gli altri.

Ecco che rimuginando sulla cosa, arriva ad un compromesso: investirà di nuovo sulla sua passione, sulla fotografia. Aprirà un blog personale dove posterà le sue foto e si farà un po’ di pubblicità, così per avere la sua piccola soddisfazione, qualcuno che vedendo i suoi lavori le dica “brava! Tu si che hai stoffa!”

Lei lo sa benissimo che non si tratta di avere un hobby; lo sa perfettamente che in tutto questa c’entra la voglia di esserci ancora con un senso, di far crescere la propria autostima, di fare qualcosa che sia solo per se stessa e che non riguardi altri. C’entra con il voler riappropriarsi della propria identità.

Marta si lancia, o meglio è la sua passione che la prende per mano e le dice cosa fare, da dove cominciare. Così riprendere a studiare. Parte da lì. Divora quei libri perché sa che deve fare più presto, che il suo tempo non è poi così tanto.

Poi segue svariati corsi online. Come le piacerebbe seguirli dal vivo. Ma non può per cui quel poco che riesce a trovare online lo ingurgita. Diventa fagocitatrice di ebook, libri, riviste. Altro che hobby. In poco tempo anche quello diventa un lavoro. Non remunerato, certo. Ma un lavoro in tutti i senti, per l’approccio professionale e responsabile con cui ci si dedica.

Dopo tanto studio decide di aprire finalmente la porta della sua casa, di girare quella maniglia e scendere per strada, alla ricerca del soggetto giusto, della luce giusta, dello scatto perfetto.

È contenta di averlo fatto, di aver agito. Attraverso quegli scatti nuovi, le sembra che la sua vita abbia ripreso a muoversi. L’ingranaggio inceppato ora si è rimesso in moto. Tutto sembra essere tornato facile, il mondo che le gira intorno più accettabile.

Ma poi quando arriva il giorno in cui deve caricare quelle foto, incomincia ad avere paura. Paura del giudizio altrui. Si sente inadeguata, le sembra di fare un azzardo. Ancora una volta è la passione che viene in suo soccorso e le ricorda le parole entusiaste delle persone con cui tempo addietro aveva collaborato.

Si fa forza e decide di pubblicarle sul suo blog. I feedback non tardano ad arrivare e, seppur timidi, sono positivi.

“Ecco è questo che voglio!” si dice soddisfatta. E resta a guardare quel semplice commento: “Stupendo” in trance. Finalmente l’ansia si attenua. Anche lei riesce a valutare quegli scatti postati con una certa obiettività. E non sono niente male.

Questo le dà la forza per aprire un profilo instragram e anche lì le cose si muovono abbastanza velocemente. I follower crescono e così lei incomincia a sentire di nuovo in sé quell’antica adrenalina, quella voglia di esserci, quella ritrovata identità.

Nel giro di poco tempo passa dal blog personale a collaborazioni gratuite per magazine online. Vedere le proprie pubblicazioni online la fa sentire viva.

Poi un giorno, qualcosa cambia. Arriva una proposta di lavoro. E qui il mondo di Marta si trasforma. Da lavoratrice a tempo indeterminato, madre e moglie, Marta diventa una donna che fa due lavori e da qui in poi la sua vita non sarà più la stessa.

La storia di Marta accomuna tantissime donne. È una storia positiva, ma attenzione non è una storia rivoluzionaria, non ci sono grandissimi colpi di scena. Marta non rinuncia al suo lavoro per la fotografia. Non diventa una fotografa affermata che gira tutto il mondo.

Non succede nulla di tutto questo. Ma Marta non è da meno a quei rivoluzionari; è un’eroina dei nostri tempi e la sua storia, come vedremo avanti non mancherà di pathos.

Storytelling lavorativo italiano e il mito della verticalizzazione

Ho preso spunto da questa storia perché credo nello storytelling del mondo del lavoro manchi un gap identificativo per le donne come Marta.

Marta non è un Millennial, non fa parte della generazione X e non è un’imprenditrice. Chi rappresenta Marta?

Quali sono gli ostacoli che incontra Marta?

Cosa glieli fa superare?

In che modo può essere aiutata a superarli?

In rete ci sono numerosissimi video tutorial ma sono dedicati solo ai giovani alle prime armi o ai liberi professionisti, gli imprenditori, freelance. Il mondo non è bianco o nero. Oggigiorno siamo sicuri che valga ancora il concetto di monogamia lavorativa, della verticalizzazione? Nonostante tutto si continua a perseguire quel mito lì.

Ma la vita è tutt’altra cosa. La vita impone il compromesso, nel mondo reale c’è prima di tutto la sopravvivenza. Ecco perché la storia di Marta che fa due lavori nonostante potrebbe accontentarsi del primo, è una storia diversa. Non stiamo raccontando la storia di una povera donna che fa più lavori contemporaneamente per tirare a campare o crescere i figli.

No! È una storia di una donna che non si accontenta. Che vuole dare un senso alla propria passione e alla propria creatività. È una donna che fa presto i conti con i suoi sensi di colpa. Che si chiede spesso se ne valga la pena.

Cosa fare in questi casi? Come riuscire a barcamenarsi? Soprattutto all’inizio quando ansia e senso di colpa ci assalgono, come possiamo fare?

Suggerimento

Il senso di colpa ti assale perché pensi di esserti buttata in una cosa che non sei in grado di gestire? Come affrontarlo e superarlo?

Prendi i tuoi lavori e osservali attentamente. Quando il tuo cervello va proprio in tilt, prendi i lavori che hai fatto, quelli attuali e quelli passati e mettili tutti davanti a te.

Inizia dalla quantità, quante cose che hai fatto vero? Poi passa alla qualità…Ne hai fatto di strada da quando hai iniziato ad ora?

Infine valuta se ci sono cose su cui puoi ancora migliorarti. La sensazione di disagio a poco a poco ti abbandonerà perché hai spostato l’attenzione del tuo cervello su un’azione concreta, sulla valutazione concreta del tuo operato, distraendolo dai tuoi sensi di colpa atavici che noi donne siamo brave a tramandarci di generazione in generazione.

L’azione spazza via ogni dubbio e incertezza.

E ora bando alle ciance, buttati nella mischia che ne vale sempre la pena!

L’antidoto al vanaglorioso intelligente: genio e coraggio

“Qualsiasi idiota intelligente è in grado di ingrandire e complicare le cose. Ci vogliono un tocco di genio e una buona dose di coraggio per andare nella direzione opposta” (E.F. Schumacher, economista e filosofo tedesco, autore di Piccolo è bello).

Basterebbe solo questa frase per far passare il messaggio, ma oggi voglio aggiungere alcune mie riflessioni:

  1. di recente sono incappata in un post interessantissimo, ma davvero molto lungo. Quando pensavo di essere giunta alla fine mi sono resa conto di non essere nemmeno alla metà dell’opera e, lo confesso, ho desistito. Rimarrò sempre con il dubbio su dove l’autore volesse andare a parare.
  2. Mi sono quindi chiesta qual è la formula magica per veicolare messaggi interessanti?
  3. Vi propongo la mia.

La formula magica per veicolare il proprio messaggio, sia esso contenuto in un post, in un video o un podcast, è quella di avere il coraggio di mettere da parte se stessi. Un post o un video lungo è un chiaro (anche se non sempre) segno delle approfondite conoscenze dell’autore. Ma perché complicare tanto le cose?

Di recente ho scoperto su LinkedIn Marta Basso il cui modo di comunicare su questo social mi piace molto: in sintesi Marta ci regala quasi quotidianamente dei video brevissimi, attraverso i quali, in maniera diretta, chiara, senza tanti fronzoli, diffonde il suo messaggio e a conclusione di quest’ultimo cita il suo hashtag personale #stopwhining, la sua firma, una firma che, secondo me, dovremmo fare nostra un po’ tutti quanti.

È proprio in questi video che io ritrovo il famoso coraggio, quello che ci consente di essere semplici, brevi e coincisi.

Mettere da parte se stessi, fare un piccolo sforzo per non vanagloriarsi del proprio sapere, per lasciare spazio ai nostri pubblici. Quando scriviamo, registriamo un video o un podcast, pensiamo un po’ meno a noi stessi e più a chi ci ascolta o ci legge. Mettiamoci nei suoi panni e cerchiamo di capire di cosa ha veramente bisogno.

Prima di iniziare chiediamoci: cosa voglio essere per il mio pubblico? Un curatore dei suoi mali? Un amico su cui può contare, a cui può raccontare le sue insicurezze? Un mago in grado di fornirgli soluzioni inaspettate?

Cerchiamo di prendere una posizione chiara nei confronti di chi ci segue e portiamo avanti in maniera coerente le nostre narrazioni.

In questo modo non avremo bisogno di scrivere o di girare video pesanti per quanto interessanti possano essere. Riusciremo ad essere semplici e diretti. Una volta messo da parte il nostro ego ci sarà chiaro quale messaggio veicolare e in che modo farlo per raggiungere i cuori e le menti dei nostri pubblici.

E il mio blog? Io mi sento un’avventuriera, sperimento e quando penso di aver trovato la pozione magica, o un posto meraviglioso te lo propongo, affinché anche tu possa meravigliarti con me, restare affascinato delle mie scoperte o possa indicarmi altre strade da seguire alla scoperta di nuovi tesori.

La natura che irrompe, l’amore per la scrittura e la nascita di un blog

La scrittura, il mio blog nuovo di zecca, la vita che ricomincia.

È la natura che lo pretende. E io non ho più scuse. Si riparte.

Non è facile. Troppo tempo è passato dall’ultimo post scritto, dall’ultimo libro letto in materia e io sarò di nuovo all’altezza?

“Perché non scrivi di nuovo? Ricordo che eri brava…” mi esorta qualcuno che ha un vago ricordo di me. Eppure gli è rimasta impressa la mia scrittura. Significherà qualcosa, no?

Paura, insicurezza.

Cosa faccio, ritorno su facebook? Si dai, è il primo passo. Contatto qualcuno di cui ricordo gli inizi e vedi ora dov’è arrivato. E io dove sono arrivata?

Io sono a punto e a capo. Ma pronta a ripartire.

Accettano la mia amicizia. Ok, non sono del tutto un’estranea. E tra questi, incontro qualcuna, perché solo donna poteva essere, che mi accoglie e spende qualche minuto per me e qualche parola di conforto.

Si lo ammetto, sono una cagasotto.

So di saper scrivere ma il personal branding non è arte mia.

Vado avanti, studio, leggo, e incomincio a scrivere. Mille libri sul tavolo. Inizio uno, mi viene un’idea, butto giù qualcosa.

Lavoro, casa, marito e poi c’è lei la natura che ti richiama all’ordine. Come oggi non hai letto niente? Non hai scritto?

Sono pronta per il secondo passo: vado su wordpress, apro un account, compro il dominio. Non ho la licenza per scrivere.com…ma scrivo lo stesso.

Perché questo nome? Perché qualcuno cinicamente tempo fa osservò che i miei commenti non erano attendibili perché io di professione facevo tutt’altro.

Una verità a metà per quell’epoca. Per questa completa. Ho lavorato per i comunicatori e con i comunicatori, ma il lavoro da casa non mi ha mai allettato.

Ecco perché non ho mai fatto solo la blogger. Per un po’ ho fatto la blogger e altro. Poi ho fatto solo altro e infine è tornata lei, la natura. E giorno dopo giorno ha scalfito un po’ di quel muro che avevo alzato tra me e lei ed imperante più che mai è debordata.

Ed eccomi qua signore e signori a ricominciare da un blog.

 

Vuoi diventare uno storyteller come Steve Jobs? Impara ad usare il tuo corpo come il grassetto in un testo scritto

Sfatiamo un mito su Steve Jobs: la sua dote da oratore non era innata

Quando si parla di storytelling aziendale o di uno speaker storyteller per eccellenza, la cui narrazione ha fatto breccia nei cuori e nelle menti del suo pubblico tutti intuitivamente pensiamo alla Apple o a Steve Jobs. Tutti, quando pensiamo a Steve Jobs, ricordiamo il suo famoso discorso agli studenti della Stanford University e ovviamente ci sentiamo perdenti in partenza.  Ciò che ci viene da pensare istintivamente è: “Si ma lui era Steve Jobs…”

Confesso che lo pensavo anche io. Poi ho letto il libro di Carmine Gallo, “Comunicare come Steve Jobs e i migliori oratori degli eventi TED” e ho scoperto una cosa che mi ha aperto gli occhi: Steve Jobs nella sua prima intervista televisiva o nelle sue prime presentazioni appariva in preda al panico, per niente sicuro e padrone della situazione come invece si mostrerà poi in seguito. Se si vanno ad esaminare i suoi speech nel corso tempo essi sono notevolmente migliorati e questo dimostra due cose: la prima è che Steve Jobs non avesse innata la dote di oratore, la seconda è che per arrivare ai risultati esorbitanti  delle ultime presentazioni, ha davvero faticato tantissimo.

Quando siamo chiamati a parlare in pubblico, pensare che sia una dote innata, è un grave errore che ci fa solo sentire peggio di quello che dovremmo. Dietro ad ogni speech, ad ogni conferenza c’è un un duro allenamento a cui dobbiamo sottoporci se vogliamo raggiungere risultati discreti.

 

La mia esperienza: speaker per un giorno

Non molto tempo fa sono stata inviata in una scuola superiore a spiegare un progetto aziendale. Ho dovuto affrontare due grossi problemi: non ho molta dimestichezza con la fascia di età da 1 a 18 anni, sono una persona timida.

Ecco il giusto cocktail capace di sabotare qualsiasi tipo di presentazione.

Poiché sono stata informata anche in tempi strettissimi, l’ansia è arrivata alle stelle. Ho cercato di preparare le slide, di renderle più efficaci possibili per puntare più sulla parte visiva che quella orale. Ma una volta giunta in aula, davanti ai miei tanto “amati” ragazzi, sono letteralmente andata in  panico.

La timidezza ha preso il sopravvento, ma avevo dalla mia un’unica arma che mi ha salvato da una figura pietosa: avevo ripetuto quella presentazione non tantissime volte come avrei voluto, ma in una quantità sufficiente da ricordare tutte le parole. Ecco perché sono riuscita ad arrivare alla fine e quando una delle allieve mi ha chiesto maggiori dettagli sul progetto sono stata davvero fiera di me. Su 20 ragazzi ero riuscita ad interessare almeno uno. Un ottimo risultato per una che era partita da meno zero.

L’esercizio aiuta proprio in questo, a non avere paura quando la platea ci spaventa, a domare l’ansia, o quanto meno ad essere capaci di inserire il pilota automatico grazie al quale potremo arrivare fino alla fine del nostro speech in maniera dignitosa.

 

Cosa fa uno speaker storyteller professionista

Se siete speaker professionisti, navigati, sapete perfettamente ciò di cui sto parlando e siete consapevoli di quanto sia fondamentale l’esercizio,  se invece siete agli inizi allora le mie parole servono a mettervi in guardia.

Prima di salire su un palco guardatevi tanto. Per farlo potete provare a riprendere voi stessi in un video. Mettetevi davanti alla telecamera, premete il tasto play e iniziate a parlare. Dopo, quando vi riguarderete, se è la prima volta che lo fate, rimarrete a dir poco shockati. Starete tutto il giorno a chiedervi: “Ma davvero mi muovo così tanto? Ho davvero quel tic fastidiosissimo? Ero convinto che quell’espressione fosse convincente e invece sembro un cretino!”

Ecco perché è cosi importante che vi guardiate, che incominciate a capire qual è la gestualità che può accompagnare in maniera efficace le vostre parole. Dovete provare e riprovare, fino a quando non sarete padroni di voi stessi, dei vostri movimenti e riuscirete a sottolineare con un piccolo gesto, un sorriso, uno sguardo le parole più importanti del vostro discorso.

Il vostro corpo ha la stessa valenza del grassetto in un testo scritto, serve a evidenziare le parole chiave del vostro speech. Ecco perché non può essere utilizzato a casaccio.

Una volta che siete riusciti in questo, fate bene a sentirvi sicuri di voi, ma non siete ancora pronti.

Davvero? Certo! Avete superato la prova del nove con voi stessi, ora la dovete superare con le persone.

E allora inizia un altro allenamento: raccontate il vostro discorso a tutte le persone che conoscete e vedete quali sono le loro reazioni; quanto siete convincenti, quanto di quello che dite riesce a colpirli e cosa invece li annoia.  Tutto questo vi servirà per raddrizzare il tiro del vostro speech.

Una volta saliti sul palco ci sarete solo voi e tutto il lavoro che avete fatto prima o – ahi voi – quello che non avete fatto.

Sia esso un’aspirazione professionale o la vostra realtà lavorativa, se domani doveste salire un palco e presentare il vostro progetto, la vostra organizzazione, la vostra passione, come vi immaginate?

Ora prendete quella visione e realizzatela: con il duro lavoro ce la farete!

#esercizi_di_storytelling: Una pausa pranzo un po’ sgangherata in un giorno festivo qualsiasi

Fare storytelling, nonostante la parola sembri dal significato intuitivo, non è qualcosa che si improvvisa e richiede la compartecipazione di svariate competenze. La competenza che ho deciso di studiare e sviluppare io è quella testuale e l’ambiente narrativo che ho scelto è il blog.

Prima però di addentrarci nella pratica occorre passare per la teoria: storia e racconto sono due cose diverse (A. Fontana docet in Storytelling for Dummies -Hoepli). La storia è la cronologia, il racconto è la rappresentazione, la raffigurazione di uno stato d’animo, di un’emozione, di un mondo. Quando uniamo la storia con il racconto diamo vita alla narrazione. Unire cronologia e racconto significa dare vita a ipercontenuti che seguono una logica narrativa ben precisa: situazione -tensione -azione risolutiva -morale.

Veniamo ora all’esercizio.

#lastoria

E’ l’8 dicembre sono a lavoro insieme a tre mie colleghe e fra un po’ è ora di pranzo. Decido di andare al Mc Donald’s, le mie colleghe non vengono. Ordino il panino con pollo e patatine.

#ilracconto

Oggi è l’8 dicembre. Giorno di festa per molti. Ma non per me. Sono qui a lavoro. L’aeroporto ha un operativo da mandare avanti che non guarda nemmeno in faccia al Natale. Anzi proprio perché è dicembre diventa ancora più incalzante.

L’orologio batte le ore 13.00. E’ ora di pranzo. Siamo solo in tre in turno, io Caterina e Teresa. Ognuna alla sua postazione. L’aria che si respira oggi in ufficio non è delle migliori. C’è chi è stato fortunato e riposa proprio oggi e c’è chi invece prontamente ha chiesto il giorno di festivo.

Noi tre non abbiamo chiesto il festivo e non abbiamo il giorno di riposo. Quindi siamo a lavoro.

Caterina è chiusa nel suo mondo di rabbia, lontana, inavvicinabile, Teresa, inarrestabile, destinata ad un moto perpetuo, quasi avesse bisogno di scappare da se stessa.

Io affamata. Triste. In lacrime.

Sono lacrime natalizie che mi accompagnano da quando ero piccola.

Natale è il momento in cui la verità ti viene sbattuta in faccia e ti ricorda che tu sei debole e che la tua famiglia non è perfetta e non lo sarà mai.

“Il Natale porta tristezza…” mi dico, “Ma anche la fame!”, penso un secondo dopo, scuotendomi da quella rassegnazione alla tristezza.

Mi guardo intorno, vedo le mie colleghe, ognuna immersa nella sua vita. E con un tono finto pimpante dico: “Sono affamata, vado a festeggiare con un bel panino da MC Donald’s”. La cosa viene accolta con un segno stentato di assenso. Nessuna parola in risposta.

Ignoro volutamente la loro indifferenza e seguendo l’istinto primordiale della fame mi avvio al primo piano dell’aerostazione. Mi viene sempre da ridere quando l’annuncio in automatico pronuncia questa parola “aerostazione”. Sa di vecchio, di vintage.

Salgo le scale del salone centrale e raggiungo il Mc Donald’s.

Un bimbo piange ininterrottamente mentre il padre cerca di prenderlo in braccio. Mi irrita. Sono già triste di mio. Avrei bisogno di cose gioiose, non del suo piagnisteo.

La cassiera, avvezza sicuramente più di me ai capricci infantili, lo ignora e mi chiede con gentilezza cosa voglio.

In quel preciso istante in cui ricevo la domanda mi accorgo di avere un problema. Non essendo una cliente abituale non conosco i nomi dei panini.

La cassiera vedendo la mia indecisione mi chiede a bruciapelo: “Che carne vuole? Pollo o carne rossa?”

“Pollo” rispondo con più sicurezza.

“Menu completo con bibita e patatine?”

“Solo patatine grazie”.

Mentre aspetto che mi prepari il tutto, alzo lo sguardo sulle tabelle che indicano i vari menù e scorgo le patatine che ho visto più di una volta in una pubblicità in tv. Lo sfondo marrone del cartellone fa risaltare ancora di più la grandezza delle patatine e il giallo del formaggio che deborda dal contenitore. Guardo l’immagine e sento già il sapore in bocca e la sua scioglievolezza.

Mi sale una voglia irrefrenabile. Allora richiamo l’attenzione della cassiera e cercando di fare un sorriso il più persuasivo possibile le chiedo: “Cortesemente puoi sostituirmi le patatine normali con quelle…” e alzo l’indice per indicare l’immagine sul cartellone, proprio come fanno i bambini.

Il Mc Donald’s è un luogo per me sconosciuto. Senza ombra di dubbio.

Guardando la ragazza togliere il pacchetto di patatine che aveva già messo nella busta, con estrema pazienza, mi sento di precisarle: “ Ovviamente pago la differenza.”

Lei mi guarda e dice “Non ti preoccupare. Per questa volta offre la casa.”

La ringrazio e mi torna su un gran sorriso. Saluto e vado via con il mio bottino.

Tornata in ufficio apro la confezione delle patatine con l’acquolina in bocca e con mio enorme stupore constato che la cassiera tanto gentile non le aveva affatto cambiate ma aveva aggiunto semplicemente del formaggio.

A quel punto il mio sorriso si trasforma in una risata grossa, aperta, liberatoria. Una risata che distoglie le mie colleghe per un attimo dalle loro vite. Entrambe si avvicinano a me incuriosite e con fare stupefatto mi chiedono cosa sia successo di così’ tanto esilarante.

Allora racconto loro del natale, della mia tristezza, del loro carattere di merda, e infine di come la cassiera mi abbia preso per il culo.

Il mio racconto veritiero oscilla dal disagio iniziale all’ilarità e loro mi seguono in quel viaggio di emozioni: si immedesimano nella mia tristezza natalizia, si offendono quando parlo del loro carattere, poi decidono di passarci su in attesa del finale, quando di fronte al racconto della cassiera stronza scoppiano in una risata fragorosa. Perché la risata è contagiosa e perché quando tutto è contro di te l’unica arma che ti resta e l ironia!

Capita la differenza tra la storia, semplice cronologia dei fatti e il racconto, ricco di ipercontenuti?

#analisi_schema_narrativo

Proviamo ad esaminare il pezzo riscontrando in quale modo esso fa parte della logica narrativa di cui vi ho accennato sopra: situazione -tensione -azione risolutiva -morale

1.situazione

“Oggi è l’8 dicembre. Giorno di festa per molti. Ma non per me. Sono qui a lavoro. L’aeroporto ha un operativo da mandare avanti che non guarda nemmeno in faccia al Natale. Anzi proprio perché è dicembre diventa ancora più incalzante. L’orologio batte le ore 13.00. E’ ora di pranzo. Siamo solo in tre in turno, io Caterina e Teresa. Ognuna alla sua postazione. L’aria che si respira oggi in ufficio non è delle migliori. C’è chi è stato fortunato e riposa proprio oggi e c’è chi invece prontamente ha chiesto il giorno di festivo. Noi tre non abbiamo chiesto il festivo e non abbiamo il giorno di riposo. Quindi siamo a lavoro.”

2.tensione

Caterina è chiusa nel suo mondo di rabbia, lontana, inavvicinabile, Teresa, inarrestabile, destinata ad un moto perpetuo, quasi avesse bisogno di scappare da se stessa.

Io affamata. Triste. In lacrime.

Sono lacrime natalizie che mi accompagnano da quando ero piccola.

Natale è il momento in cui la verità ti viene sbattuta in faccia e ti ricorda che tu sei debole e che la tua famiglia non è perfetta e non lo sarà mai.

3.azione risolutiva

“Il Natale porta tristezza…” mi dico, “Ma anche la fame!”, penso un secondo dopo, scuotendomi da quella rassegnazione alla tristezza.

Mi guardo intorno, vedo le mie colleghe, ognuna immersa nella sua vita. E con un tono finto pimpante dico: “Sono affamata, vado a festeggiare con un bel panino da MC Donald’s”. La cosa viene accolta con un segno stentato di assenso. Nessuna parola in risposta.

Ignoro volutamente la loro indifferenza e seguendo l’istinto primordiale della fame mi avvio al primo piano dell’aerostazione. Mi viene sempre da ridere quando l’annuncio in automatico pronuncia questa parola “aerostazione”. Sa di vecchio, di vintage.

Salgo le scale del salone centrale e raggiungo il Mc Donald’s.

Un bimbo piange ininterrottamente mentre il padre cerca di prenderlo in braccio. Mi irrita. Sono già triste di mio. Avrei bisogno di cose gioiose, non del suo piagnisteo.

La cassiera, avvezza sicuramente più di me ai capricci infantili, lo ignora e mi chiede con gentilezza cosa voglio.

In quel preciso istante in cui ricevo la domanda mi accorgo di avere un problema. Non essendo una cliente abituale non conosco i nomi dei panini.

La cassiera vedendo la mia indecisione mi chiede a bruciapelo: “Che carne vuole? Pollo o carne rossa?”

“Pollo” rispondo con più sicurezza.

“Menu completo con bibita e patatine?”

“Solo patatine grazie”.

Mentre aspetto che mi prepari il tutto, alzo lo sguardo sulle tabelle che indicano i vari menù e scorgo le patatine che ho visto più di una volta in una pubblicità in tv. Lo sfondo marrone del cartellone fa risaltare ancora di più la grandezza delle patatine e il giallo del formaggio che deborda dal contenitore. Guardo l’immagine e sento già il sapore in bocca e la sua scioglievolezza.

Mi sale una voglia irrefrenabile. Allora richiamo l’attenzione della cassiera e cercando di fare un sorriso il più persuasivo possibile le chiedo: “Cortesemente puoi sostituirmi le patatine normali con quelle…” e alzo l’indice per indicare l’immagine sul cartellone, proprio come fanno i bambini.

Il Mc Donald’s è un luogo per me sconosciuto. Senza ombra di dubbio.

Guardando la ragazza togliere il pacchetto di patatine che aveva già messo nella busta, con estrema pazienza, mi sento di precisarle: “ Ovviamente pago la differenza.”

Lei mi guarda e dice “Non ti preoccupare. Per questa volta offre la casa.”

La ringrazio e mi torna su un gran sorriso. Saluto e vado via con il mio bottino.

Tornata in ufficio apro la confezione delle patatine con l’acquolina in bocca e con mio enorme stupore constato che la cassiera tanto gentile non le aveva affatto cambiate ma aveva aggiunto semplicemente del formaggio.

4.morale

A quel punto il mio sorriso si trasforma in una risata grossa, aperta, liberatoria. Una risata che distoglie le mie colleghe per un attimo dalle loro vite. Entrambe si avvicinano a me incuriosite e con fare stupefatto mi chiedono cosa sia successo di così’ tanto esilarante.

Allora racconto loro del natale, della mia tristezza, del loro carattere di merda, e infine di come la cassiera mi abbia preso per il culo.

Il mio racconto veritiero oscilla dal disagio iniziale all’ilarità e loro mi seguono in quel viaggio di emozioni: si immedesimano nella mia tristezza natalizia, si offendono quando parlo del loro carattere, poi decidono di passarci su in attesa del finale, quando di fronte al racconto della cassiera stronza scoppiano in una risata fragorosa. Perché la risata è contagiosa e perché quando tutto è contro di te l’unica arma che ti resta e l ironia!

Detto fatto: ecco la mia prima sperimentazione come storyteller. E ora passo la palla a te…Se ti va puoi condividere con me le tue sperimentazioni…

Vuoi che il tuo speech sia autentico? L’autenticità non è spontanea, va allenata

Le nostre narrazioni, siano esse personali, di un’organizzazione o di un prodotto nascono con l’intento di diventare famose, di imprimersi nella mente dei nostri pubblici. Quando decidiamo di presentare un nostro progetto ai nostri capi, di aprire un blog, di raccontare un’organizzazione o un prodotto, l’unico vero desiderio che ci spinge è quello di essere ascoltati, letti, seguiti.

Per fare ciò dobbiamo tener conto innanzitutto dei nostri pubblici, di cosa vogliamo fare per loro, perché loro dovrebbero seguirci, ascoltarci, scegliere proprio noi e non altri e in che modo possiamo essere loro di aiuto. Prima di iniziare dobbiamo cercare la nostra autenticità, quell’unicità che fa sì che il nostro pubblico ci riconosca quell’autorità in grado di risolvere i suoi dubbi, i suoi problemi.

Il pubblico è alla ricerca continua di narrazioni autentiche.

Analizziamo la parola autenticità. Essa deriva da Autentico: gr. AUTENTIKÒS da AUTHÈNTEO avere autorità e propr. Agire da se medesimo, da AUTÒS egli stesso ed ENTÒS, che risponde al latino INTUS in, entro. Dicesi di ciò che ha autore certo e che perciò fa autorità. (fonte: http://www.etimo.it/?term=autentico)

L’autenticità è qualcosa con cui uno storyteller deve fare i conti fin dall’inizio del suo percorso. In maniera erronea si è portati a pensare che l’autenticità sia spontaneaNiente di più sbagliato in quanto essa, al contrario di quanto si pensi, è il frutto di uno duro lavoro che lo storyteller deve fare su sé stesso affinché il pubblico gli riconosca l’autorità di quello che dice, e si affidi a lui perché in lui trova le soluzioni che sta cercando.

Se leghiamo il concetto di autenticità a quello di autorità incominciamo a capire che l’autenticità è un qualcosa che si costruisce e  quindi non può essere un fatto spontaneo.

 

Come si raggiunge l’autenticità? Attraverso la disciplina e l’allenamento: ce lo insegna una storia

Da quando ho intrapreso lo studio dello storytelling, ho scoperto un universo affascinante dove le rappresentazioni dei nostri mondi vengono affidate a diverse professionalità, che si raggiungono solo con tanto sudore e tanta tecnica. Di recente mi è capitata una sfida molto simpatica: un amico, professionista nell’ambito del marketing e comunicazione, tra il serio e il faceto, mi ha chiesto di scrivere un discorso per lui per una presentazione di un evento digital.

Ha buttato lì la sua richiesta come se fosse un gioco e io desiderosa di mettere in pratica un po’ di quello che avevo studiato, ho detto di sì.

La cosa che gli premeva di più era quella di fare una presentazione priva di tecnicismi, che puntasse sulla creazione di empatia con il pubblico.

Ho riflettuto sulla questione e ho realizzato un discorso con l’intento di fare breccia nelle teste e nei cuori del suo pubblico. Il discorso è piaciuto molto al mio amico ma – ahi noi! –quello che sarebbe dovuto essere happy ending purtroppo non si è verificato.

A distanza di qualche tempo il mio amico mi ha detto una cosa che mi ha molto meravigliata:Sai di tanto in tanto, quando sono in macchina, ripeto il tuo discorso e davvero non riesco a capire perché non abbia funzionato la volta scorsa, visto che mi piace tantissimo.

Ho quindi incominciato a lavorarci su per capire cosa fosse andato storto. Dopo qualche giorno gli ho inviato il pezzo rieditato. Direte voi ma chi te lo ha fatto fare? Per quel che mi riguarda parto sempre da questo presupposto; se non lavoro sugli errori fin dall’inizio corro il rischio di arenarmi nella fase “da grande avrei voluto fare…ma poi…”

E poiché sono convinta di voler andare avanti in questo sperimentazione come storyteller, mi sono detta: “Vediamo cosa succede cambiando registro e avvicinandolo di più a quello della persona che avrebbe dovuto presentare…”

Il risultato è stato inaspettato. Il mio amico ha deciso di riutilizzare lo stesso discorso in un’altra occasione.

Entusiasta delle modifiche effettuate e reduce della non riuscita del discorso precedente, questa volta il mio amico ha puntato tutto sull’ allenamento. Ha raccontato il suo discorso a chiunque mostrasse interesse o avesse il tempo di ascoltarlo, dalla moglie, ai colleghi, all’amico del bar. E ogni feedback ricevuto era per lui importante. È stata dura, ma questa volta la presentazione è risultata di gran lunga più efficace rispetto alla volta precedente.

Lesson learned

In breve un discorso troppo lontano dal registro linguistico e comunicativo dello speaker e un mancato esercizio da parte di quest’ultimo, mina l’autenticità della narrazione in quanto mancando la sicurezza dell’esposizione il pubblico viene disturbato dal nervosismo del suo speaker e non concentra sul messaggio.

Può accadere che le narrazioni non vengano scritte direttamente da chi poi è deputato a raccontarle, come nel caso dell’esempio su menzionato. In quel caso abbiamo un autore che realizza la narrazione e lo storyteller che è colui che sale sul palco di una conferenza, fa la presentazione del suo progetto, ecc, ecc…

E’ importante quindi che entrambi comunichino e si conoscano profondamente. In questo modo l’autore è in grado di creare una narrazione che sia nelle corde dello storyteller, sia fedele alla sua natura e allo stesso tempo si prenda cura del suo pubblico.

Ecco perché l’autenticità va allenata: è un qualcosa che si conquista lavorandoci duramente, bisogna scavare dentro sé stessi, dentro al significato di ogni singola parola e capito quale risulta essere più vera per noi. Raccontare il proprio speech a conoscenti e passanti, oppure riprendersi in video sono le tecniche utilizzate dai più grandi speaker del mondo.

I feedback che riceviamo da chi ci ascolta possono essere fondamentali per noi, per renderci conto in che modo possiamo aggiustare il tiro della nostra narrazione e renderla più efficace. Il video inoltre ci aiuta a “domare” la nostra gestualità e farsi che essa accompagni le nostre parole, le sottolinei, le enfatizzi.

È in questo modo che riusciamo a creare quell’ effetto magico che si chiama storylistening trance experience, ovvero la sincronia dei cervelli con il nostro pubblico, il quale riesce a immedesimarsi con la nostra narrazione e ci riconosce l’autorità di ciò che stiamo dicendo.

Qual è stata l’ultima volta in cui un tuo speech ha dato vita a questo momento magico: è stato in grado di far scattare la sincronia con i cervelli dei tuoi lettori/ascoltatori/pubblico?

 

 

L’identità narrativa delle aziende, un universo complesso dove Narrazione e Contro Narrazione si fondono

Come mai la sola immagine della marca ad un certo punto non è stata più autosufficiente a rappresentare l’identità di un’azienda è si è dovuto ricorrere alle storie?

La risposta a questa domanda la troviamo nella storia di un marchio famosissimo, la Nike, di cui la maggior parte di voi sarà sicuramente già a conoscenza.

Tuttavia vale la pena raccontarla in quanto è uno degli esempi più calzanti di quel momento di svolta in cui le aziende si sono rese conto che affidare la propria identità ad un semplice logo non era più sufficiente e bisognava ricorrere ad una vera e propria identità narrativa.

La storia della Nike

Tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000 la Nike viene scossa da due eventi:

  1. Numerose inchieste condotte in Asia, Africa e America latina portano all’attenzione dei paesi industrializzati le condizioni di lavoro di chi fabbrica i vestiti e le scarpe del famoso marchio. Si scoprono gli swaetshops, ovvero i laboratori del sudore. “Il movimento antiNike in cui si mostravano i buchi neri della globalizzazione: illuminavano i legami invisibili tra le marche e i loro subappaltatori, tra le agenzie di marketing e le fabbriche clandestine, tra i palloni da calcio ai piedi dei giocatori dei Mondiali del ’98 e le mani dei bambini che li fabbricavano. Sotto lo swoosh della Nike, i sweatshops” (Storytelling La fabbrica delle Storie)
  2. Nel 2003 un gruppo di artisti in aperta contestazione dell’occupazione dello spazio pubblico da parte del marchio Nike, installano un container in Karlsplatz con uno stand che si chiama (Nikeground. Rethinhking Space), informando i cittadini che la piazza era stata comprata dalla Nike e quindi era stata ribattezzata Nikeplatz e che presto sarebbe accaduto lo stesso in tutte le piazze principali d’Europa. “We set up a fake Nike advertisement campaign using a website and a huge hi-tech container we installed in a public square in Vienna. The news went out nationwide: “Karlsplatz, one of Vienna’s main squares, is soon to be renamed Nikeplatz, and a huge monument  in the shape of Nike’s famous Swoosh logo will be built in Nikeplatz”. The campaign provoked the reactions of Vienna’s citizens, city officials and the Nike group, which started legal action. Against all odds we won against the giant.http://0100101110101101.org/nike-ground/

Era chiaro che le ONG  e le rappresentazioni artistiche avevano messo ko il marchio Nike.

Un’identità narrativa della Nike, non a favore del marchio, si era sviluppata al di fuori del marchio stesso, sfuggendo al suo stesso controllo.

La Nike aveva bisogno quindi di una sua identità narrativa, che il semplice logo non era più sufficiente a rappresentare.

Ecco perché si è passati dall’immagine di marca al racconto della marca.

La Nike diede quest’incarico a David Boje, esperto di organizational storytelling e grazie lui, essa ebbe una nuova identità narrativa che era fatta di un impegno forte a cambiare la propria politica del lavoro e per la protezione dell’ambiente.

Il potere della narrazione, come si evince da ciò che abbiamo poc’anzi raccontato, è molto forte, ed è capace di aumentare la percezione del valore dell’oggetto narrato o del suo disvalore.

Nel caso della Nike è chiaro che il racconto di una marca non è solo quello partorito dall’azienda stessa, ma è un universo complesso in cui si fondono narrazione e contro narrazione.

“Le imprese sono organizzazioni narrative, percorse da molteplici racconti, terreno di un dialogo costante tra narrazioni che si oppongono o si completano.” (David M. Boje)