Il pericolo di utilizzare modi di dire e frasi fatte in un romanzo

Correre più veloce della luce, imprecare come il peggiore dei camionisti, chi si accontenta gode, fare un’eccezione, buttarsi a capofitto: queste sono le frasi che ho letto nelle primissime righe di un libro. Ad un certo punto la mia attenzione è andata scemando, infastidita dalla compresenza di modi di dire e frasi fatte. Il testo ha preso una rincorsa verso la banalità penalizzando una tematica quella amorosa, che già di per sé, appare stantia e abusata.

Mi è dispiaciuto per l’autore, perché da scrittrice so benissimo quanto sia difficile scrivere un romanzo. Ma mi sono anche detta che se proprio aveva piacere di utilizzare dei modi di dire almeno li poteva spargere per tutto il testo, dosare in maniera sapiente.

L’effetto di leggere tante frasi fatte tutte insieme è davvero controproducente. E’ sinonimo di mancanza di proprietà di linguaggio. Le parole utilizzate sono quelle attraverso cui interpreta il mondo che lo circonda. Più sono scontate maggiore sarà la sua povertà di immaginazione. Quali storie inventate potrà mai partorire una mente che decodifica l’ambiente circostante con così pochi strumenti?

L’utilizzo di frasi e parole scontate trasmette a chi legge sciatteria, mancanza di accuratezza nella descrizione di personaggi, oggetti, paesaggi ed emozioni. Presentare l’animo di un essere umano non è per nulla facile, implica una capacità di introspezione nonché la padronanza di strumenti linguistici capaci di rappresentare in maniera certosina l’universo interiore dell’essere umano.

L’antidoto al vanaglorioso intelligente: genio e coraggio

“Qualsiasi idiota intelligente è in grado di ingrandire e complicare le cose. Ci vogliono un tocco di genio e una buona dose di coraggio per andare nella direzione opposta” (E.F. Schumacher, economista e filosofo tedesco, autore di Piccolo è bello).

Basterebbe solo questa frase per far passare il messaggio, ma oggi voglio aggiungere alcune mie riflessioni:

  1. di recente sono incappata in un post interessantissimo, ma davvero molto lungo. Quando pensavo di essere giunta alla fine mi sono resa conto di non essere nemmeno alla metà dell’opera e, lo confesso, ho desistito. Rimarrò sempre con il dubbio su dove l’autore volesse andare a parare.
  2. Mi sono quindi chiesta qual è la formula magica per veicolare messaggi interessanti?
  3. Vi propongo la mia.

La formula magica per veicolare il proprio messaggio, sia esso contenuto in un post, in un video o un podcast, è quella di avere il coraggio di mettere da parte se stessi. Un post o un video lungo è un chiaro (anche se non sempre) segno delle approfondite conoscenze dell’autore. Ma perché complicare tanto le cose?

Di recente ho scoperto su LinkedIn Marta Basso il cui modo di comunicare su questo social mi piace molto: in sintesi Marta ci regala quasi quotidianamente dei video brevissimi, attraverso i quali, in maniera diretta, chiara, senza tanti fronzoli, diffonde il suo messaggio e a conclusione di quest’ultimo cita il suo hashtag personale #stopwhining, la sua firma, una firma che, secondo me, dovremmo fare nostra un po’ tutti quanti.

È proprio in questi video che io ritrovo il famoso coraggio, quello che ci consente di essere semplici, brevi e coincisi.

Mettere da parte se stessi, fare un piccolo sforzo per non vanagloriarsi del proprio sapere, per lasciare spazio ai nostri pubblici. Quando scriviamo, registriamo un video o un podcast, pensiamo un po’ meno a noi stessi e più a chi ci ascolta o ci legge. Mettiamoci nei suoi panni e cerchiamo di capire di cosa ha veramente bisogno.

Prima di iniziare chiediamoci: cosa voglio essere per il mio pubblico? Un curatore dei suoi mali? Un amico su cui può contare, a cui può raccontare le sue insicurezze? Un mago in grado di fornirgli soluzioni inaspettate?

Cerchiamo di prendere una posizione chiara nei confronti di chi ci segue e portiamo avanti in maniera coerente le nostre narrazioni.

In questo modo non avremo bisogno di scrivere o di girare video pesanti per quanto interessanti possano essere. Riusciremo ad essere semplici e diretti. Una volta messo da parte il nostro ego ci sarà chiaro quale messaggio veicolare e in che modo farlo per raggiungere i cuori e le menti dei nostri pubblici.

E il mio blog? Io mi sento un’avventuriera, sperimento e quando penso di aver trovato la pozione magica, o un posto meraviglioso te lo propongo, affinché anche tu possa meravigliarti con me, restare affascinato delle mie scoperte o possa indicarmi altre strade da seguire alla scoperta di nuovi tesori.

I vincoli spazio-temporali scatenano il potere narrativo di uno storyteller

#storyteller in 50 secondi? si può!

Qualche giorno fa ero in aeroporto, seduta in prossimità del mio gate, in attesa dell’inizio dell’ imbarco del mio volo.

Di fronte a me c’era un desk per la vendita di carte di credito. Ciò che aveva attirato inizialmente la mia attenzione era la conversazione tra il cliente e il venditore, nello specifico, il fatto che il cliente, nonostante mostrasse una certa ritrosia, non smetteva di complimentarsi con il venditore per la sua professionalità.

Che strano-mi sono detta -il signore non vuole acquistare niente ma non se ne va e continua a dire quanto sia bravo il ragazzo.

Mi sono quindi interessata sempre di più a ciò che si stavano dicendo e quando il venditore, che fino a quel momento si era limitato solo a sorridere e a ringraziare, ha iniziato a parlare ho capito il perché dei complimenti.

Con una naturalezza infinita ha esordito: “Proprio ieri sera ero a cena con un mio amico il quale mi chiedeva un consiglio: un paio di mesi prima aveva noleggiato un’auto e aveva fatto un incidente. I soldi del danno li aveva già pagati, ma stranamente quel giorno gli erano stati nuovamente addebitati. Erano le 11 di sera e io gli ho suggerito: “Chiama ora la banca, vedi come possono aiutarti.” Lui ha chiamato e alle 23.30 la banca gli ha risolto il problema.”

Dopo una pausa di pochi secondi per capire la reazione del suo interlocutore ha continuato: “Le sto dicendo questo perché la nostra banca è aperta h24, 365 giorni l’anno. Se lei ha un problema e si trova all’estero, di smarrimento o furto della sua carta, per averne un’altra, con la sua attuale carta, è costretto ad aspettare giorni. Con la nostra l’intervento è immediato.”

L’interlocutore era oramai ammaliato e anche io ero molto interessata. Alla fine, incuriosita dal personaggio, mi sono avvicinata per complimentarmi e abbiamo iniziato a parlare. Mi ha detto quanto gli piacesse il suo lavoro e di quanto in realtà fosse difficile: ” Pensa che io devo  attirare l’attenzione del suo pubblico, spiegargli il prodotto e convincerlo ad acquistarlo in 50 secondi.”

Solo 50 secondi? Quel numero mi ha davvero fatto riflettere. E pensare che i migliori presentatori TED devono esibirsi in 18 minuti!

Invece lui era riuscito a fare uno storytelling impeccabile in pochi minuti. In maniera inconsapevole ma comunque con grande efficacia.

E allora mi sono detta in effetti un vero storyteller è colui che non si fa spaventare dai vincoli di tempo o di spazio. Anzi riesce a dare il meglio di sé proprio in loro presenza.

Non a caso ci sono dei fantastici storyteller su twitter nonostante il vincolo di caratteri.

Le limitazioni sono la condizione ottimale per far scatenare la nostra fantasia, spiega Matthew May in The Laws of Subtraction.

E anche gli studi recenti confermano che sono le restrizioni a generare il potere della nostra immaginazione.

Ma come si fa a sviluppare una narrazione efficace in pochi minuti?

Ne parlerò nel prossimo articolo. Stay tuned!

 

Vuoi diventare uno storyteller come Steve Jobs? Impara ad usare il tuo corpo come il grassetto in un testo scritto

Sfatiamo un mito su Steve Jobs: la sua dote da oratore non era innata

Quando si parla di storytelling aziendale o di uno speaker storyteller per eccellenza, la cui narrazione ha fatto breccia nei cuori e nelle menti del suo pubblico tutti intuitivamente pensiamo alla Apple o a Steve Jobs. Tutti, quando pensiamo a Steve Jobs, ricordiamo il suo famoso discorso agli studenti della Stanford University e ovviamente ci sentiamo perdenti in partenza.  Ciò che ci viene da pensare istintivamente è: “Si ma lui era Steve Jobs…”

Confesso che lo pensavo anche io. Poi ho letto il libro di Carmine Gallo, “Comunicare come Steve Jobs e i migliori oratori degli eventi TED” e ho scoperto una cosa che mi ha aperto gli occhi: Steve Jobs nella sua prima intervista televisiva o nelle sue prime presentazioni appariva in preda al panico, per niente sicuro e padrone della situazione come invece si mostrerà poi in seguito. Se si vanno ad esaminare i suoi speech nel corso tempo essi sono notevolmente migliorati e questo dimostra due cose: la prima è che Steve Jobs non avesse innata la dote di oratore, la seconda è che per arrivare ai risultati esorbitanti  delle ultime presentazioni, ha davvero faticato tantissimo.

Quando siamo chiamati a parlare in pubblico, pensare che sia una dote innata, è un grave errore che ci fa solo sentire peggio di quello che dovremmo. Dietro ad ogni speech, ad ogni conferenza c’è un un duro allenamento a cui dobbiamo sottoporci se vogliamo raggiungere risultati discreti.

 

La mia esperienza: speaker per un giorno

Non molto tempo fa sono stata inviata in una scuola superiore a spiegare un progetto aziendale. Ho dovuto affrontare due grossi problemi: non ho molta dimestichezza con la fascia di età da 1 a 18 anni, sono una persona timida.

Ecco il giusto cocktail capace di sabotare qualsiasi tipo di presentazione.

Poiché sono stata informata anche in tempi strettissimi, l’ansia è arrivata alle stelle. Ho cercato di preparare le slide, di renderle più efficaci possibili per puntare più sulla parte visiva che quella orale. Ma una volta giunta in aula, davanti ai miei tanto “amati” ragazzi, sono letteralmente andata in  panico.

La timidezza ha preso il sopravvento, ma avevo dalla mia un’unica arma che mi ha salvato da una figura pietosa: avevo ripetuto quella presentazione non tantissime volte come avrei voluto, ma in una quantità sufficiente da ricordare tutte le parole. Ecco perché sono riuscita ad arrivare alla fine e quando una delle allieve mi ha chiesto maggiori dettagli sul progetto sono stata davvero fiera di me. Su 20 ragazzi ero riuscita ad interessare almeno uno. Un ottimo risultato per una che era partita da meno zero.

L’esercizio aiuta proprio in questo, a non avere paura quando la platea ci spaventa, a domare l’ansia, o quanto meno ad essere capaci di inserire il pilota automatico grazie al quale potremo arrivare fino alla fine del nostro speech in maniera dignitosa.

 

Cosa fa uno speaker storyteller professionista

Se siete speaker professionisti, navigati, sapete perfettamente ciò di cui sto parlando e siete consapevoli di quanto sia fondamentale l’esercizio,  se invece siete agli inizi allora le mie parole servono a mettervi in guardia.

Prima di salire su un palco guardatevi tanto. Per farlo potete provare a riprendere voi stessi in un video. Mettetevi davanti alla telecamera, premete il tasto play e iniziate a parlare. Dopo, quando vi riguarderete, se è la prima volta che lo fate, rimarrete a dir poco shockati. Starete tutto il giorno a chiedervi: “Ma davvero mi muovo così tanto? Ho davvero quel tic fastidiosissimo? Ero convinto che quell’espressione fosse convincente e invece sembro un cretino!”

Ecco perché è cosi importante che vi guardiate, che incominciate a capire qual è la gestualità che può accompagnare in maniera efficace le vostre parole. Dovete provare e riprovare, fino a quando non sarete padroni di voi stessi, dei vostri movimenti e riuscirete a sottolineare con un piccolo gesto, un sorriso, uno sguardo le parole più importanti del vostro discorso.

Il vostro corpo ha la stessa valenza del grassetto in un testo scritto, serve a evidenziare le parole chiave del vostro speech. Ecco perché non può essere utilizzato a casaccio.

Una volta che siete riusciti in questo, fate bene a sentirvi sicuri di voi, ma non siete ancora pronti.

Davvero? Certo! Avete superato la prova del nove con voi stessi, ora la dovete superare con le persone.

E allora inizia un altro allenamento: raccontate il vostro discorso a tutte le persone che conoscete e vedete quali sono le loro reazioni; quanto siete convincenti, quanto di quello che dite riesce a colpirli e cosa invece li annoia.  Tutto questo vi servirà per raddrizzare il tiro del vostro speech.

Una volta saliti sul palco ci sarete solo voi e tutto il lavoro che avete fatto prima o – ahi voi – quello che non avete fatto.

Sia esso un’aspirazione professionale o la vostra realtà lavorativa, se domani doveste salire un palco e presentare il vostro progetto, la vostra organizzazione, la vostra passione, come vi immaginate?

Ora prendete quella visione e realizzatela: con il duro lavoro ce la farete!